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L'editorriale di TerzaRepubblica

L'Europa agisca da grande potenza

DAZI E GUERRA, UNICA QUESTIONE ESCLUSIVAMENTE POLITICA CHE L’EUROPA DEVE AFFRONTARE STANDO UNITA (CHI CI STA)

di Enrico Cisnetto - 18 luglio 2025

La guerra dei dazi scatenata da Donald Trump è una questione politica, anzi geopolitica, non economica. Se non si capisce questo, si rischia di sbagliare valutazione, e di conseguenza risposta. Come dimostrano le ridicole discussioni in corso, quella tra chi pensa che il presidente americano stia bluffando e chi invece pensa che faccia sul serio – disputa che fa sembrare tutti dei profondi conoscitori del poker e della psicologia dei giocatori più incalliti – e quella tra chi asserisce sia meglio esser morbidi, accontentandosi del male minore, e chi invece suggerisce di essere duri, rispondendo colpo su colpo. A bene, è la stessa divisione che separa gli assertori del “ora sull’Ucraina Trump fa sul serio” da coloro che non ci credono per niente. E, infatti, dazi e Ucraina, o per meglio dire rapporto con Putin, sono due facce della stessa medaglia, e devono assolutamente essere valutate insieme, come un’unica grande questione geo-strategica, al cui fondo c’è l’insano e opaco rapporto tra il presidente americano e quello russo.

Per quanto possa pensare il peggio di Trump – e lo penso – mi rifiuto di credere che egli non sappia che questa storia delle tariffe doganali come leva per risollevare le sorti dell’economia americana sia una gigantesca bufala. E se anche ne era convinto inizialmente, di certo ha dovuto ricredersi dopo le reazioni più che negative che i mercati, le banche e il grande capitalismo hanno avuto dopo la ignobile sceneggiata del 2 aprile scorso, in quello che lui ha chiamato “liberation day”. Dunque, le ultime sparate nei confronti prima di Messico e Canada e poi dell’Europa – con quella lettera dai toni mafiosi (“se provate a reagire raddoppiamo la dose”) – sono prima di tutto un atto di intimidazione politica, la quale s’inscrive in un disegno di destabilizzazione degli assetti planetari che finora ha coinciso con quello portato avanti da Putin fino ad apparire – e io credo anche ad essere – una cosa sola. E infatti, se i dazi, o meglio il minacciarli, servono a destabilizzare soprattutto l’Europa, che affronta questa inedita circostanza divisa e piena di incertezze, eguale effetto lo desta il continuo stop and go trumpiano circa il conflitto russo-ucraino.

Ambiguità, quella del presidente americano, che ha raggiunto il suo culmine in questi giorni – ma, mai dire mai, potrebbe riservarci ulteriori sorprese – con, da un lato, frasi e posture anti-Putin, ingannatrici solo per chi si vuol far ingannare e non capisce o fa finta di non capire che dare un (pen)ultimatum di 50 giorni in vigenza di un’offensiva militare contro l’Ucraina senza precedenti, anche perché orientata principalmente su obiettivi civili, è una scandalosa presa per i fondelli. E, dall’altro, la salomonica definizione “non sto né con Kiev né con Mosca”, accompagnata dalla decisione non di aiutare militarmente Zelensky, come sbandierato con notevole faccia di bronzo, ma di fare business vendendogli i missili Patriot per il tramite della Germania e facendoli pagare all’Europa con un accordo interno alla Nato. Non è un caso, infatti, che l’unica vera decisione che farebbe la differenza – sposare il disegno di legge del senatore Lindsey Graham che prevede di imporre dazi del 500% ai paesi che acquistano gas, petrolio e uranio dalla Russia – Trump non l’abbia presa e, temo, non prenderà. Mentre se nel frattempo nulla accadrà, dal primo di agosto scatterà la gabella del 30% su tutti i prodotti importati dall’Europa. Stiamo parlando di qualcosa oltre 15 volte l’attuale livello daziario, sicuramente destinata ad arrecare un grave danno alle economie continentali, e in particolare alla nostra, che è la seconda, dopo quella tedesca, per la dimensione dell’interscambio commerciale.

Ma, attenzione: applicare quella tassa doganale, prima di tutto, arrecherebbe una lesione non meno grave agli interessi degli Stati Uniti. E questo Trump lo sa (se anche si era inizialmente fatto ingannare dalle strampalate teorie economiche che gli avevano propinato, nel frattempo se ne è reso conto). Ecco perché gioca sulle date, temporeggia, va avanti e poi torna sui suoi passi continuamente: il suo vero obiettivo è destabilizzare il Vecchio Continente non tanto con i dazi quanto con lo snervante gioco degli annunci. Anche perché, da un lato, ha bisogno di non perdere la faccia agli occhi dei suoi elettori, cui ha raccontato che i dazi sono la leva per assicurare all’America una nuova età dell’oro. Mentre dall’altro, cerca di dividere l’Europa sperando che qualche paese scavalchi Bruxelles e vada da lui implorando un trattamento di favore. Non è un caso che l’amico italiano di Trump, tale Paolo Zampolli, uomo d’affari salito alla ribalta delle cronache per le sue frequentazioni presidenziali e per essere stato nominato alla Casa Bianca “inviato speciale per le partnership globali”, abbia sollecitato palazzo Chigi via Corriere della Sera in questo modo: “cosa aspetta l’Italia a trovare un accordo con Trump? Dovrebbe sedersi al tavolo e fare il deal, può fare il deal da sola...” (si noti la finezza, un accordo tra Stati lo chiama deal).

Ma se così stanno le cose, ha ragione Paolo Mieli quando sostiene che “la parte più seria e consapevole dell’Europa non può inseguire questi giochi di prestigio”. Non si tratta di essere duri o molli, ma di essere consapevoli che quella sui dazi è una partita politica (non economica) che include anche la questione della sicurezza militare (non solo difesa dell’Ucraina per ragioni morali, ma difesa dei confini continentali a cominciare da quelli polacchi) e come tale presuppone di avere una propria linea che eviti di giocare solo di rimessa. Per questo, dice ancora Mieli, l’Europa “deve trovare al cospetto del Presidente degli Stati Uniti una compattezza di cui in passato non ha mai avuto bisogno, e il fare fronte comune val bene qualche sconto in meno”. Insomma, dobbiamo agire da “grande potenza”, quale siamo pur non avendone piena coscienza, senza con ciò spingerci al punto di rottura – sarebbe un grave errore, perché gli Stati Uniti sono altra cosa rispetto a Trump, che è presidente pro tempore e potrebbe vedersi contenere i suoi immensi poteri attuali anche prima della scadenza del mandato – ma avendo la piena consapevolezza che è Washington, in qualche modo d’intesa con Mosca (consapevole o meno, non cambia), che quella rottura va cercando. 

E qui veniamo al che fare. Da Stiglitz a Prodi, da Bini Smaghi a Tabellini, sono in molti ad aver dato saggi suggerimenti: basta analizzare i settori dei servizi, a cominciare dal tech e dalla finanza, su cui l’Europa è in deficit commerciale nei confronti degli Usa – si calcola un surplus di poco meno di 150 miliardi di euro, il che compensa quello a nostro favore relativo a beni e prodotti riducendo lo scompenso a solo una cinquantina di miliardi, che su un interscambio complessivo di 1700 miliardi non è neppure il 3% – e cominciare a mettere in atto politiche fiscali, normative e se necessario anche daziarie tali da far capire al nostro alleato d’oltreoceano che ha smesso di essere tale, che anche noi siamo in grado di far male. E magari di farlo proprio laddove finiscono gli interessi nazionali e cominciano quelli privati (ma in Trump c’è questo confine?) del presidente americano. A Bruxelles lo sanno benissimo di cosa si tratta: dalla “global minimum tax” sulle multinazionali del digitale e della tecnologia per evitare che facciano profitti in Europa senza pagare imposte – non a caso Trump ha minacciato di inasprire i suoi dazi se fosse introdotta, in ballo ci sono circa 100 miliardi di dollari in tasse estere per le big tech Usa – all’imposizione di un tetto nella raccolta del risparmio europeo da parte di fondi e banche americane. Così come si possono immaginare limitazioni all’importazione di armi ed energia (il Gnl, il gas liquefatto) made in Usa. Tutte scelte fin qui evitate quando addirittura non si è andati nella direzione opposta. Ma che presuppongono tre fondamentali pre-condizioni.

La prima è la compattezza europea. Da raggiungersi prescindendo dall’unanimità, anche a costo di restringere il perimetro e perdere qualcuno per strada. Un passaggio doloroso ma imprescindibile, tanto più perché come detto è sul terreno politico e non tecnico-economico che va affrontata la questione. Questo presuppone due cose. Una è che si abbandonino tutte le velleità “pontiere” verso la Casa Bianca, che peraltro fin qui non hanno dato né possono dare frutti, e che si ragioni e agisca solo ed esclusivamente in chiave europea. Mi sembra che, seppur faticosamente e con colpevoli ritardi, un po’ tutti i leader continentali stiano andando in questa direzione, e comunque deve essere chiaro che un conto è appollaiarsi scodinzolanti ai piedi di Trump sperando di carpirne la benevolenza e un conto fare operazioni come quella di Merz sulle forniture militari, che pur essendo unilaterale e per questo in contraddizione con l’assunto della compattezza continentale, è pur sempre a fin di bene (di Kiev). L’altra è che si tralascino politiche nazionali in contraddizione con lo spirito da “grande potenza” con cui la Ue deve affrontare la questione dazi. Un esempio nostrano per capirci: la sciocca idea di escogitare un modo per utilizzare i fondi del Pnrr per lenire le perdite delle aziende italiane esportatrici che dovessero subire i danni della guerra commerciale trumpiana. Sciocca sia sul piano nazionale, perché sarebbero aiuti di Stato realizzati con risorse che dovrebbero essere destinate a stimolare la ripresa, aumentare la competitività e favorire l’innovazione, e che invece, così, diventerebbero l’ennesimo bonus riparatore. Ma deleteria sul piano europeo, perché delinea un comportamento da “grande impotenza” che è esattamente quello che Trump (e con lui Putin) vuole diventi il nostro continente.

La seconda pre-condizione è che si agisca in stretto collegamento e coordinamento con altri paesi, da quelli occidentali (Gran Bretagna, Canada, Giappone, Australia) a quelli del Mercosur (area con la quale sarà bene decidersi a firmare un accordo di libero scambio), da quelli asiatici (India, Corea del Sud) a quelli indo-oceanici come l’Indonesia, aprendo una nuova era del commercio internazionale. Infine, la terza e ultima pre-condizione: bisogna subito mettersi al lavoro per creare produttori e mercati europei fin qui inesistenti o rafforzarli laddove siano gracili e tecnologicamente arretrati. L’esempio che è sulla bocca di tutti da tempo è l’industria della difesa, che va integrata perché diventi europea e non più nazionale, creandole un committente comunitario (l’esercito europeo), ma anche nel campo dei servizi finanziari (banche, assicurazioni, fondi, fintech) occorre abbattere le barriere e sconfiggere le tendenze sovraniste.

Se tutto questo accadrà, forse avranno ragione coloro che dicono che in fondo Trump è una benedizione, perché ci costringe a fare le scelte che senza quella pistola alla tempia non abbiamo e non avremmo mai fatto. Se non accadrà, beh è meglio che non ve lo dica che fine faremo. Tertium non datur. (e.cisnetto@terzarepubblica.it)

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